Odio i ritardi, arrivare in ritardo, finire le cose in ritardo e cose del genere. In qualche modo, odio anche giocare ai giochi in ritardo rispetto alla loro release, ma non sono ancora abbastanza ricca (no way) da potermi permettere di comprare al lancio tutti i titoli che mi suonano grossomodo interessanti, sopratutto dal punto di vista narrativo. The Last of Us era indubbiamente uno di essi.
Questa recensione NON contiene spoiler
Non ho dita particolarmente sciolte, e rischio di incazzarmi quando un videogioco mi fa sentire abbastanza stupida da dover provare e riprovare una sequenza dieci o venti volte prima di trovare la miglior strategia per proseguire. Per questo, posso dire che l’elemento che più mi sta a cuore, quando voglio un videogioco davvero completo, che mi lasci davvero qualcosa, è la narrazione. Quando voglio divertirmi senza impegno gioco a Crash Team Racing, quando voglio arricchirmi interiormente gioco a Metal Gear Solid, giusto per capire di che tipo di distinzione ludico-narrativa sto parlando.
Quando i colleghi della critica mi hanno presentato The Last of Us come la nuova frontiera della sceneggiatura del videogame, il marcamento di una nuova linea di confine oltre alla quale aveva casa il futuro di questo medium, era impossibile non rizzare le orecchie. Se, davvero, il colossal di Naughty Dog rappresentava tutto questo, io dovevo vivere la sua esperienza. E così, da buona risparmiatrice, ho atteso i saldi natalizi su PlayStation Store, e me lo sono portata a casa.
Non mi dilungherò troppo sui profili di gameplay del gioco – li trovate spiegati abbondantemente in qualsiasi recensione di qualsiasi collega su una qualsiasi testata online. Mi limito a dire che la struttura di gioco ha un pattern efficace, anche se propone situazioni che finiscono presto col ripetersi. Mentre David Cage si impegna a sbandierare a destra e a manca di voler sfidare il cervello dei giocatori con il suo Beyond, Naughty Dog, zitta zitta, lo faceva già. The Last of Us è una sfida reale per la vostra materia grigia, e vi impedisce fisicamente di pensare che la forza bruta possa risolvere i problemi dei protagonisti. Per sopravvivere, serve il cervello. Il vostro cervello. Pianificare una strategia ed attaccare dopo un’accurata riflessione risulta stimolante e adrenalinico, molto più di quanto non sia lo smitragliare indistinto che caratterizza la maggior parte dei videogiochi odierni. E se proprio volete smitragliare, sappiate che i developer non hanno sparso poi tante munizioni qua e là.
Si può dire quindi che la struttura del gioco è efficace ed elettrica, ben congegnata, anche se a tratti rischia quasi di risultare abbozzata, quasi timida, a causa dell’esigua varietà di nemici. Una volta che avete studiato qual è il miglior approccio per ciascuno di essi, la tensione si piega un po’ e alcuni scenari sembrano quasi ripetersi. Tuttavia, questa sensazione passeggera non riesce a compromettere quello che rimane, a mio modo di vedere, un reparto gameplay intelligente – e non è poco.
Anche l’intelligenza artificiale degli avversari si mostra ben ponderata, ad eccezione dei casi in cui (sopratutto nelle prime fasi di gioco) essi considereranno invisibili gli alleati NPC, non vedendoli nemmeno quando correranno di qua e di là in cerca di un nascondiglio.
The Last of Us è un gioco dall’atmosfera straordinaria, alla quale strizza l’occhio una componente estetica curata in maniera maniacale dai ragazzi di Naughty Dog. Nonostante il background sia estremamente distopico ed apocalittico, il mondo di gioco è un piacere per gli occhi sia nei suoi scenari naturali che nei suoi anfratti. Ad elementi così robusti, come il gameplay e la grafica, si sposa una narrazione che non punta sulla fantapolitica, non punta sul colpo di scena a tutti i costi – no: The Last of Us vuole parlare di esseri umani.
Parlare di esseri umani in un mondo dove la razza è in estinzione, come suggerisce il titolo dell’opera, è già di per sé un’idea interessante. Il gioco ci avvicina fin da subito all’irsuto e roccioso Joel (che, sopratutto nel prologo, credo faccia sesso a praticamente qualsiasi donna esistente, passatemi il commento da bimbaminchia), che ha visto il fiorire del mortale fungo che ha sterminato l’umanità, riducendone la maggior parte ad esseri estremamente aggressivi, abominevoli e pericolosamente contagiosi. Joel è un uomo evidentemente irrigidito dal contrasto tra la sua vita precedente – comunque non rose e fiori – e quella attuale, che si è tradotta in un mero sopravvivere. L’uomo è andato avanti per vent’anni mantenendosi con lavori non proprio tranquilli all’interno della società post-apocalittica, e mostra una freddezza non indifferente innanzi a praticamente qualsiasi cosa. Anche i rapporti con Tess, donna con cui collabora nelle sue mansioni, non vanno esattamente oltre al “collaboriamo per sopravvivere.”
Ora immaginate quest’uomo, abituato a crudezze di ogni genere e capace di schiacchiare un cranio semplicemente schiantandolo contro un muro a mano aperta, a cui viene assegnato il compito di portare una ragazzina, una quattordicenne – Ellie – da una parte all’altra del Paese. Non che la quattordicenne sia il tipo di adolescente americana che è negli stereotipi odierni: Ellie non usa mezzi termini, è astuta e maleducata, arrogante, sfacciata, diretta, aggressiva, coraggiosa, sfrontata. È nata quando il mondo era già ridotto ad una colonia di contaminati, e non ha mai conosciuto com’era prima – com’è adesso. Per questo, difficilmente la ragazzina si riconduce all’adolescente media di oggigiorno. Ed è sorprendente, nel corso del gioco, scoprire che è difficile decidere chi, tra il mighty Joel e la piccola Ellie, abbia le palle più pesanti. Joel ha dovuto abituarsi ad un mondo dedito al sopravvivere piuttosto che al vivere, ma Ellie non ha dovuto nemmeno abituarcisi: Ellie ci è nata, in quel mondo. Non conosce altra realtà. Per lei, quello è tutto perfettamente normale. Gli umani vivono così, a forza di unghie e a forza di denti.
La narrazione del gioco si sorregge bene aggrappata alla tensione, così densa da poterla tagliare con uno dei rudimentali coltelli utilizzati da Joel, fino ad una brillante climax che vi farà sentire di appartenere profondamente – profondamente – alle vicende dei due protagonisti. Dei colpi di scena che non sconvolgono per il loro essere originali, per il loro “non me lo sarei mai aspettato”, quanto per il loro concentrarsi, ancora una volta, sui risvolti umani. Su cosa succede all’individuo, non al mondo e al suo destino, a seguito di quegli eventi.
Farete tutto per proteggere Ellie e combatterete disperatamente per la sopravvivenza di Joel, nemico dopo nemico. The Last of Us vi farà stringere ai suoi due protagonisti in maniera brillante, ben congegnata, discretamente credibile, e dipana una storia estremamente semplice ma di cui c’era bisogno, che ricorda all’utente il suo essere umano e quindi non infallibile, e gli mostra in continuazione, quasi con un paradosso, che il mondo è pieno, strapieno di mostri – ma le cose peggiori le fanno ancora (o ci provano) gli esseri umani.
Le recensioni dei colleghi mi avevano presentato The Last of Us come un cambia-storia. Un nuovo capitolo nella lunga e contorta storia del medium videoludico, che era arrivata ad un punto di svolta, ad un nuovo compromesso tra cinema e gameplay, ad un nuovo livello di commistione tra immediatezza emotiva e immediatezza visuale. Non penso francamente che il gioco rappresenti tutto questo. Credo che The Last of Us rappresenti uno dei più brillanti e riusciti videogames dei tempi recenti (e meno recenti), grazie ad un gameplay che stimola il giocatore anche se non varia, ad un’atmosfera indimenticabile e ad una narrazione che punta tutto, e fa bene, su due personaggi estremamente ben costruiti ed umani. È un gioco che può entusiasmare per la sua altissima qualità, ma non mi azzarderei a scomodare un nuovo capitolo della Storia dei videogiochi. Penso che ci entri di diritto, come sicuramente una delle realizzazioni più brillanti di questo medium, ma non l’ho trovato così sconvolgente ed innovativo.
Bello, bellissimo, quello sì.
The Last of Us è un gioco pieno di significato, profondo, pregno di umanità. La dote che apprezzo di più, nello storytelling: rendere i propri personaggi umani. Non mi piacciono gli stereotipi, non mi piacciono le sagome, io voglio le vicende di persone che posso sentire vicine, che posso capire, con cui posso mettermi empaticamente in collegamento. The Last of Us fa questo in maniera eccellente. Lo fa con le sue scelte (e non-scelte) narrative, lo fa con i suoi protagonisti, lo fa con il suo messaggio.
Quando gli infetti vi aggrediranno, Joel e Ellie noteranno che “non c’è più niente di umano in loro.” Come a dire che ciò che ci caratterizza è che, in fondo in fondo, c’è qualcosa di buono in noi. C’è la forza straordinaria di attraversare un intero Paese per un fine più grande, due contro tutti. E l’umanità di dubitare di essere speciali. Il non essere sicuri di avere quello che serve a salvare un mondo che, forse, nemmeno vuole essere salvato.
Voto 9