Lo scrivere secondo Tarkovskij

Quando presi parte al corso di storia e critica del cinema, qualche anno fa, ne ero affascinata e spaventata al contempo. L’idea e il timore erano quelli di ritrovarsi innanzi a vetusti ed elefantici racconti visuali degli anni Venti, che avrebbero fatto della pesantezza il loro diktat. Con mia immane sorpresa, dovetti scoprire che le opere più vetuste furono anche quelle dai messaggi più profondi.

Così, per un Von Trier che veniva presentato con il titanico Dogville (in tutta la sua pesantezza, se volete un commento personale), c’era un Dreyer che veniva presentato con un Dies Irae secondo me inferiore allo splendido Ordet. E c’era un film in particolare che aveva tanto da dire.
Quel film era “il cavallo di battaglia” della docente, l’opera magna del suo regista preferito, e si chiamava Stalker, di Andreij Tarkovskij.
Non rimarrò qui a dilungarmi sul perché quella pellicola sia inquietante e geniale al contempo, ne rimarcherò pubblicamente quanti bei ricordi, figuracce comprese, mi legano ad essa. Voglio sottolineare solo una scena, una soltanto, che rende merito al tutto: alla scrittura del film, e alla Scrittura in generale.
E forse è di questa scena che volevo parlare tanti anni fa in quell’aula, quando tentai di intervenire e le parole mi morirono in gola.

Il film pone un Professore e uno Scrittore, guidati dallo Stalker, in cerca di una misteriosa stanza che realizzerebbe qualsiasi desiderio. La riflessione dello Scrittore è quella che segue:

Supponiamo pure che io entri in quella stanza, divento un genio e torno nelle nostre città dimenticate da Dio. Mi segue? Ma l’uomo scrive soltanto perché si tormenta, perché dubita. E perché deve continuamente dimostrare a se stesso e agli altri che davvero vale qualcosa. Ma se sapessi con certezza di essere un genio, perché dovrei continuare a scrivere? Me lo sa dire perché?

Ho voluto riportare qui queste righe per la profonda verità che esprimono. Per come, con poche parole, Stalker metta a nudo l’animo di ogni scrittore.
Le riporto perché vorrei averle scritte io. Ma non l’ho fatto. E forse è meglio così. Perché, se sapessi con certezza di essere un genio…

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